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Questione Meridionale

Scritto da Elena Ruggieri

La pianificazione urbanistica e le periferie urbane negli anni post-unitari

La questione meridionale si definisce tale dopo l’unificazione nazionale in diretto rapporto con il processo capitalistico avviatosi in Italia subito dopo il 1860.

Una domanda sulla quale molti studiosi e storici si sono soffermati è se il grande divario di condizioni economiche e sociali tra Nord e Sud sia conseguenza dell’unificazione o se viceversa, affondi le sua redici molto più lontano. E’ stata la politica dei primi governi post-unitari a rivelare l’arretratezza del Mezzogiorno? Oppure la profondità delle sue radici costituisce motivo di quasi assoluzione sul bilancio di quell’azione politica? La risposta a tale domanda è importante e non può non essere condizionata dal giudizio storico sulle politiche dei governi post-unitari, compresi quelli della più recente era repubblicana, la cui azione per lo sviluppo del Mezzogiorno è stata complessa ed impegnativa, nonostante chi consideri fallimentari i risultati.

Volendo ripercorrere gli studi e le analisi storiche passate non possiamo tralasciare il commento di Croce che nella Storia del Regno di Napoli fa risalire la divergenza nell’andamento storico delle due Italie al XIII secolo, con la frattura della Stato normanno-svevo e la conseguente contrapposizione tra l’angioino Regno di Napoli e l’aragonese Regno di Sicilia. “Da quella frattura derivò il malanno della contesa di pretendenti, che i feudatari alimentavano e che a sua volta alimentava le ribellioni dei feudatari”; il Regno fu caratterizzato da guerre interne ed esterne “ guerre di pretendenti che volevano sostituirsi, e talvolta in parte si sostituirono, ai re che tenevano il regno, e guerre di baroni che volevano sempre imporre la loro volontà e i loro capricci ai sovrani, e perciò si davano ai pretendenti o fingevano di seguirne le parti

Ne conseguì che mentre altrove la feudalità decadeva, nel Regno di Napoli si rafforzava prendendo nuova forza; questo è il motivo per cui nel maggiore periodo di splendore della storia civile italiana, dai Comuni al Rinascimento, il Regno di Napoli non consente il paragone con quello di Venezia, di Firenze, di Genova. Conseguita l’unità, nelle altre parti d’Italia, “le cose procedettero alquanto meglio, favorite dalla posizione geografica e dalle condizioni economiche, e anche dai frutti di più lunga civiltà e da non del tutto perdute attitudini politiche”.

La tesi crociata viene appoggiata anche da Giuseppe Galasso che afferma “il punto fondamentale è costituito dal fatto che l’elemento motore ed egemone del lungo ciclo storico apertosi all’alba del secondo millennio dell’età cristiana furono, nell’Italia centro-settentrionale, la città e le forze economiche e sociali di estrazione indigena da essa promanati; e nell’Italia meridionale e in Sicilia fu, invece, nonostante episodi ed aspetti particolari di diverso significato, una forza militare straniera che imperniò il suo predominio”.

E’ altresì interessante dare testimonianza sulla tesi dell’inesistenza di un consistente divario all’atto dell’unificazione che si avvale, sul piano statistico, essenzialmente di due argomenti. Il primo è che ai censimenti del 1861 e del 1871 le percentuali di addetti all’industria risultarono superiori nel Mezzogiorno; il secondo è che il tenue fiscalismo borbonico aveva consentito a molti privati l’accumulazione di notevoli capitali liquidi. Sull’attendibilità dei dati di quei primi censimenti ci sono fondate riserve, infatti vennero considerate congiuntamente grandezze dal significato economico profondamente diverso: stabilimenti industriali e botteghe artigiane dalla produttività bassissima.

Prima dell’unificazione nel Mezzogiorno v’erano alcuni grandi stabilimenti industriali, promossi dal governo borbonico e dal capitale straniero (metallurgici, meccanici, tessili, cartari) quasi tutti concentrati nel Napoletano, nel Salernitano e nella Valle del Liri; rimanevano però esempi isolati e di ispirazione straniera non assimilati dall’intera economia, industrie queste, fortemente protette dalla politica fiscale e doganale del governo borbonico che non bastarono a modificare la struttura economica della società meridionale.

Quanto all’esistenza di capitali liquidi, la loro mancata utilizzazione per investimenti produttivi e sociali è da considerarsi un indice di maggiore arretratezza strutturale rispetto alle altre regioni.

Prima del 1860, il Mezzogiorno era fortemente attardato dalla presenza di una struttura economica fondata sull’agricoltura con scarsa maturazione capitalistica. L’estensione delle colture aveva determinato un certo incremento del prodotto agricolo meridionale; ma pressoché inalterato rimaneva il sistema di produzione, restio all’introduzione di moderne forme di organizzazione capitalistica e all’investimento diretto di capitali. La borghesia fondiaria meridionale trovava più conveniente estrarre rendita dai latifondi come dai minori appezzamenti piuttosto che investire capitali sulla terra; le condizioni dei contadini, i cui diritti venivano aboliti e in maniera notevolmente ridotta avveniva la quotazione delle terre demaniali, si aggravavano ulteriormente.

Permanevano dunque, ancora nella seconda metà del secolo, caratteri di complessiva arretratezza nell’agricoltura meridionale e troppo grande era la distanza tra le campagne del sud, dominate dalla proprietà assenteista, e un tipo capitalistico di agricoltura sviluppata come quella lombarda, dove l’intensificazione del processo produttivo per intervento di capitale, avveniva già da molto tempo.

Ad aggravare la situazione era il sistema di comunicazione, che condannava all’isolamento delle città e delle campagne, prive quasi completamente di strade;dei 2.500 chilometri di strade ferrate in tutto il territorio italiano, solo un centinaio in tutto il Mezzogiorno; la rete stradale del Nord si sviluppava per 67.000 chilometri, quella del Sud per 15.000; un ulteriore elemento questo di debolezza, nel Mezzogiorno, che trovava conferma nel ridotto volume del commercio estero.

Resta il fatto che negli anni successivi all’unificazione, l’arretratezza economica del Sud non fu percepita nella sua specifica gravità e profondità, imputandola al malgoverno borbonico.

La politica economica dei primi governi unitari favoriva lo sviluppo capitalistico del paese lungo una direttrice liberistica, promovendo l’espansione dell’agricoltura specialmente esportatrice, mentre si rivolgeva all’estero per ottenere manufatti industriali, come dimostrava l’applicazione del trattato commerciale stipulato con la Francia. La diversa condizione economica e sociale del paese determinò, pertanto esiti di sviluppo capitalistico diverso favorendo certamente quelle aree tecnologicamente più sviluppate e moderne.

Ci troviamo così di fronte ad un paese caratterizzato da due economie con un differente grado di sviluppo e con scarsi rapporti di reciproca integrazione; tale separatezza, secondo Cafagna si sarebbe protratta a lungo: quando infatti nei decenni successivi decollerà lo sviluppo industriale del Nord, il Sud non sarà in grado di concorrervi in misura apprezzabile, sia pure quale termine debole di un rapporto di tipo coloniale, con la fornitura di materie prime, di forza lavoro e di derrate alimentari, delle quali il Nord potrà invece più convenientemente approvvigionarsi al suo interno o all’esterno.

La pubblicazione delle Lettere meridionali di P. Villari, nel 1875, aprì la prima fase della riflessione critica sulla condizione del Mezzogiorno all’interno dello stato italiano. L’autorità dello stato doveva allargare le basi del suo consenso nella società, operando le necessarie riforme; sulla base di questa consapevolezza molti intellettuali e politici quali Villari, Franchetti, Fortunato, Gianturco, Nitti, Sonnino, avviarono una importante attività di ricerca e di analisi della realtà meridionale che si caratterizzò uniformemente per la comune aspirazione di approfondire la situazione reale, senza timore di rivelare le gravi responsabilità della politica governativa.

Interessante a tal proposito notare come al centro della polemica nittiana vi era una minuziosa analisi regionale del bilancio dello Stato che consentì, negli anni successivi all’unificazione, un progressivo trasferimento di capitali dal sud al nord.

Il programma di Francesco Saverio Nitti si configurava nella necessità del processo di industrializzazione; in questa chiave va considerata la proposta di sviluppo industriale per Napoli, rivolta al duplice obiettivo di sollecitare l’investimento capitalistico locale e di richiamare una quota del capitale settentrionale. Napoli doveva, così diventare il centro motore del rinnovamento sociale ed economico del Sud; in effetti l’impianto siderurgico di Bagnoli fu l’unico esempio di capitalismo moderno ma che rimase isolato rispetto alla realtà circostante.

Non bastava quindi una legge speciale ad eliminare la subordinazione di Napoli e del Mezzogiorno alle effettive tendenze di sviluppo capitalistico italiano.

Il quadro più amaro e realistico della società napoletana ottocentesca verrà disegnato da Giustino Fortunato scrivendo “Nella grande maggioranza degli onesti è immutata la tendenza ereditaria alla noncuranza di tutto e di tutti: è fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendite; non ha fede, né carattere; non sdegno, né amore; rifugge tuttora dagli obblighi di coltura e di socievolezza, imposti da nuovi ordini politici”.

Questione meridionale, una questione ancora aperta e mi domando se a determinare le sorti e a segnare il tracciato economico del Mezzogiorno in che misura ha potuto influenzare il tessuto socio-culturale di questo popolo rispetto ai fattori politico-istituzionali ed ambientali-territoriali?

 

Bibliografia

S. Cafiero, Questione meridionale e unità nazionale, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1996.

B. Croce, Storia del Regno di Napoli, La Terza, Bari 1966.

G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Enaudi, Torino 1965.

L. Cafagna, Sviluppo e dualismo nella storia d’Italia, Padova 1989.

F. Barbagallo, L’azione parallela, Liguori, 1990.

G. Fortunato, Le classi dirigenti, “Rassegna settimanale” 25 Agosto 1878.

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